Il morbo di Crohn
Il morbo di Crohn fa parte, insieme alla rettocolite ulcerosa, di quelle malattie intestinali croniche, classificate come IBD (intestinal bowel disease), la cui origine e terapia non è ancora ben chiarita; infatti sul corretto trattamento chirurgico di queste patologie è ancora aperto un vivace dibattito. Si tratta di una malattia cronica, di forte impatto sociale, perché colpisce nel mondo occidentale 3-10 persone ogni 100000 abitanti, soprattutto in giovane età, procurando spesso una condizione invalidante.
Un progresso è stato sicuramente fatto dalla introduzione della chirugia mininvasiva laparoscopica nella cura della malattia. Infatti il tasso di soddisfazione di questi pazienti era superiore se trattati con intervento di resezione intestinale eseguito in laparoscopia. È stato così eseguito uno studio teso a dimostrare se la minore aggressione offerta dalla laparoscopia si riflettesse non solo sull’immediato postoperatorio, ma anche sui risultati a distanza.
Sono stati eseguiti alcuni studi che, anche se sviluppati su di un piccolo campione, non hanno dimostrato differenze significative differenze nel decorso della malattia tra pazienti sottoposti a chirurgia convenzionale rispetto a quella laparoscopica. Da questi studi è però emerso come il numero di infezioni della ferita ed il numero di complicazioni postoperatorie, non legate al morbo di Crohn, fosse inferiore nella chirurgia laparoscopica.
È emerso anche come questi risultati fossero legati all’operatore, ovvero alla esperienza in ambito laparoscopico ed alla chirurgia digestiva in particolare.
Questo dato è ormai comune a tutte le ricerche, che hanno dimostrato come i risultati migliori siano sempre ottenuti dai centri ad alto flusso, sia in campo oncologico, che nel trauma o nelle patologie digestive funzionali.
Nel caso del morbo di Crohn, nonostante sia conosciuta la strategia chirurgica corretta ed il momento in cui effettuare l’intervento, restano ancora oscure alcune variabili in grado di influenzare la malattia, sebbene attualmente l’impiego della nuova famiglia dei farmaci, gli anticorpi monoclonali, abbia cambiato molto la prognosi.